Mors tua, vita mea
Ferragosto, ho lasciato Rouen per la costa. Avevo voglia di mare e mi sono trovato in mezzo alla guerra, ben presente 62 anni dopo. Tutto ricorda l'operazione Overlord, il D-Day, sulla costa. In ogni paese è un gran sventolare di bandiere alleate, cartelli con itinerari, musei e memoriali, oltre a qualche vestigia dell'orrore che affiora, tra la campagna e il mare della tranquillità. I paesini della costa ribollono di turisti, inglesi, olandesi, parecchi italiani, famiglie in camper, comitive e motociclisti, che riempiono bistrot e ristorantini a tutte le ore. Arrivo a Courseulles sur mer - Juno beach in codice - per cercare una stanza, ma la lascio poco dopo. La giostrina sulla piazzetta centrale, il minigolf, gli alberghi impavesati e i posti auto tutti pieni: rimetto in moto e passo al paese seguente, Arromanches, Gold beach in codice. E' ancora più denso. Ma sono le 2 e ormai - realizzo - un posto vale l'altro: anche qui la giostrina, gli alberghi impavesati, non vedo il minigolf, ma sarà da qualche parte. Trovo una stanza e inizio il mio tour "dans la guerre".
Arromaches deve la sua fortuna turistica, più che allo sbarco, al grande porto artificiale che gli Alleati hanno realizzato: Mulberry B harbour. Pochi giorni dopo il macello galattico, ho scoperto in gran parte americano - oltre 3mila morti sulle spiagge, gli altri molti meno: 574 morti canadesi, 400 gli inglesi: qualcosa non ha funzionato - ad Arromanches hanno realizzato un porto gigantesco. Prima hanno affondato dei vecchi mercantili per fare la diga foranea, poi ampliata con enormi cassoni di cemento, allagati, - parecchi dei quali ancora ben visibili con l'alta e la bassa marea - realizzati in Gran Bretagna e trainati al seguito delle truppe combattenti. Lo stesso per i pontili d'attracco e di collegamento con la terra ferma, alcuni dei quali spiaggiati. Una gigantesca opera d'ingegno, intorno alla cui memoria gravita l'economia di un intero paese. Nella piazza principale, c'è il museo che la ricostruisce, con plastici, reliquie, immagini e, infine, un video con immagini d'epoca. Sei chilometri più a ovest, a Longues, una batteria di cannoni quasi intonsa, e qualche bunker, in mezzo ai campi mietuti di grano e al mais in attesa, relitti per fotografi e autografi di viaggiatori.
Le bandiere e le vestigia dei liberatori proseguono per tutta la costa ma, per rivivere lo sbarco, bisogna arrivare fino al cimitero di guerra americano. L'ho già visto, inquadrato nelle prime e nelle ultime scene di "Salvate il soldato Ryan", il film di Spielberg che, spesso, mi riaffiora nella mente mentre scorro questi luoghi francesi. E' una fiction, lo so, ma è l'unico aggancio che posso avere per cercare di comprendere in quale incredibile situazione possano essere stati catapultati inconsapevolmente migliaia di ragazzi, buttati laggiù, sulla costa che scorgo oltre il parapetto, dove ora passeggiano o sguazzano ragazzini e mamme, in piacevole ristoro dalle fatiche di tutti i giorni. Il memoriale riecheggia di sommesse parole turistiche e familiari, mentre in centinaia passeggiano tra queste croci cristiane o di David, la prima delle quali mi restituisce il nome di "a comrade in arms" conosciuto solo a Dio. Sono diverse queste croci know to God, tra le 9 mila ordinate geometricamente verso l'infinito. Sono le più dolorose forse, perché scorrendo i nomi delle altre accanto ai passi, puoi tentare di dare una forma, nebulosa magari, a chi vi riposa. Il nome, Vito, Frederick Smith, John, Theodore, quest'ultimo con una stella, quella al merito, qualche nome italiano, in buona parte dallo stato di New York. Poi il grado, capitano in uno squadrone bombardieri, magari colpito dalla contraerea, un soldato caduto nei giorni dopo lo sbarco, un carrista, saltato su una mina o centrato da un 88. E poi la provenienza: Iowa, Rhode Island, New Jersey, Texas e infine la data di morte. Si svuota il cimitero, poco prima hanno ammainato la bandiera, mentre gli altoparlanti diffondevano le note il brusio turistico si è ammutolito. Scatto qualche immagine e faccio per spostarmi, ma il mio passo resta a mezz'aria, bloccato dall'immobilità di quelle migliaia di occhi che guardano scendere, lentamente, quella bandiera insanguinata.
Mi avvio all'uscita, tra il verde e il candore per fermarmi davanti a un'ultima croce. C'è un mazzolino, ormai appassito, sotto la croce di Willard J. Clouse, staff sergeant della 82 divisione aviotrasportata, dal Kentucky lanciato nell'operazione Detroit a nord o a ovest di Sainte Mère Eglise, e caduto il 7 giugno. Uno dei 1600, che qualcuno ha voluto ricordare qualche giorno fa. Mi volto a guardare un'ultima volta questa candida distesa, la costa, le memorie di quei giorni, riscritte da liberati e vincitori, nei monumenti echeggianti di parole come valore e onore e libertà. Ma lasciandole non posso non pensare che, come Willard, anche i vinti sono stati scaraventati qui in un gioco più grande di loro, e che hanno sparato l'ultimo colpo pensando solo al "mors tua vita mea". Sono vinti, sì, due volte, caduti e dalla parte sbagliata della Storia. Ma le loro umane spoglie, e la pietà, dove sono?