Letterina di Natale

Davanti a me ho la lettera di licenziamento. Per conoscenza. Perché è indirizzata alla direzione territoriale del lavoro. La forma non è ancora raffinata nella cooperazione. Ma è solo questione di tempo, impareranno. E in fondo non ha importanza: lo sapevo. Me l'hanno detto in un colloquio. Tutti lo sapevamo. Era nell'aria. Abbiamo perso l'appalto e in genere questa è la trafila: si può passare alla coop che subentra. La Direzione Territoriale convoca il tavolo con le Parti e si definisce la trattativa. A fine mese si può scegliere. O si passa di là, all'altra cooperativa (non sociale) – e il lavoro riprende - o la disoccupazione. Poteva andare peggio. Molto peggio.

Il lavoro perduto dalla mia futura ex cooperativa sociale è la logistica (vedi wikipedia), in appalto da un'azienda leader (si dice così e in effetti lo è) nella distribuzione di libri a prezzo intero e a metà prezzo. La quale esternalizza (outsourcing) parti della lavorazione. La logistica, appunto. Una volta si chiamava facchinaggio. La sede di lavoro è l'azienda appaltante. Per chi non sapesse cos'è una cooperativa sociale, è una forma di società di lavoro che prevede almeno il 30% dei dipendenti diversamente abili o di categorie protette. Tra i miei compagni ci sono (o c'erano, a seconda della scelta che farò) disabili psichici o con ritardi cognitivi, ex carcerati, ex tossicodipendenti, disabili fisici. Io non ho fatto ancora le pratiche, ma con l'infarto mi beccherei il 40% di disabilità. Prima o poi presenterò la documentazione. E comunque, visto da vicino, nessuno è normale. Per cui, sono e mi sento pienamente integrato.

Ho iniziato il 16 giugno 2010 occupandomi delle rese dei clienti del metà prezzo. Avevo il mio computer, uno scanner, come quelli del supermercato, e su un grande banco di lavoro ci passavo sopra i codici a barre dei libri. Ero le Rese, nome proprio di settore. Se il libro era stato acquistato lì, il programma (una robaccia in AS400) lo accreditava al cliente. Se no, no. Se il libro era integro, lo mettevo in un bancale di libri misti, ben ordinato con il dorso all'esterno, se era rotto nel bancale che andava al macero, se era un dizionario lo mettevo con i dizionari, se era un illustrato lo mettevo tra gli illustrati, se era un net price (mai capito cosa volesse dire) lo mettevo in uno dei tre tipi di net price e via così. Ero una specie di cassiera del supermercato che lavorava al contrario. Un privilegiato, rispetto agli altri nel capannone. Otto ore al giorno dalle 7,30, una pausa alle 10, una alle 11,30, una pausa pranzo di mezz'ora alle 12,30, una alle 14,30, fine turno alle 16.

Il caposquadra mi disse che dovevo lavorare 1800 libri al giorno per pagarmi lo stipendio. Calcolando un giorno di otto ore, ovvero 480 minuti, ovvero 28800 secondi fa un libro passato allo scanner ogni 16 secondi. Compresi naturalmente lo spostamento dei bancali – tra i 400 e i 600 kg - , la creazione dei file di pratiche nel computer, l'apertura delle scatole, il posizionamento dei libri in entrata sul bancone, quelli in uscita, l'ordinamento dei libri lavorati sul bancale, lo smistamento negli altri bancali se libri di tipo “speciale”. Più altre mansioni che rientravano nell'appalto per il settore Rese. Non era vero, ne bastavano 1650. Era solo un trucchetto per farmi aumentare la produttività. Roba imparata probabilmente alla scuola di Muccioli (sì, proprio quello della porcilaia). Niente in confronto a quello che gli ho visto fare.

Quando finivo tutte le rese (ci son voluti sei mesi: avevamo molto lavoro arretrato), andavo a dare una mano a quelli di là dal mio banco di lavoro, alle Lavorazioni (con la elle maiuscola, nome proprio di settore). Il che significava togliere le etichette dai libri a metà prezzo con un taglierino, attaccarne di nuove con stampigliato il prezzo e la promozione di cui facevano parte, confezionarli in confezioni. Parliamo di bancali, roba da Grande Distribuzione Organizzata, tipo iper – ultra - mega centri commerciali. Ognuno si metteva al proprio banco- faccia la muro -, un bancale di libri ai quali attingere, una pila sul banco, un nastro di etichette e via così ad attaccare, libro dopo libro, pila dopo pila, bancale dopo bancale, ordine dopo ordine. Otto ore al giorno. In piedi al freddo d'inverno – il capannone non è riscaldato – in piedi al caldo d'estate – il capannone non è refrigerato – la polvere del vicino cementificio tutto l'anno. Dopo un paio d'ore di sto stacca e attacca mi sbarluggicavano gli occhi e barcollavo. Per questo mi consideravo un privilegiato, dietro il mio computer.

Per i disabili psichici invece era un "toccasana". Il lavoro deve essere semplice e ripetitivo, devi dargli istruzioni chiare, devono poter lavorare sereni e quindi tutto fila liscio. Senno entrano in difficoltà. Ci sono persone che si preoccupano di questo in cooperativa, credo in tutte le cooperative sociali. Gente che si preoccupa di trovare le commesse adatte. E nella commessa il lavoro adatto. Che seguono i lavoratori fuori dal lavoro e che intervengono se danno segni di difficoltà, per permettergli di fare la loro parte. Di guadagnarsi il loro stipendio. Insieme ai colleghi, ovvio. Perché tutti hanno le loro magagne. E gestire il proprio lavoro non è facile, se sei uno “svantaggiato”. Gestire le cose, non è facile. Gestire i rapporti, non è facile. Se un amico mi dice «Sono preoccupato un po' per mio figlio, lo vedo irrequieto, ricorda me alla sua età» siamo nell'ordinaria amministrazione di padre di famiglia. Se me lo dice un collega che zoppica perché ha un tendine reciso dal proiettile di un rappresentante di gioielli, esploso mentre lo stava rapinando quando aveva l'età del figlio, beh, capisco il suo tono preoccupato. E siccome tutti hanno le loro magagne, il clima viaggia verso una solidale armonia. Con qualche piccolo scazzo e antipatia, chiaro. Se il clima non viaggia così, è perché qualcuno le proprie magagne non se le ricorda. O le nasconde dietro la sua “responsabilità”.

Quando ho iniziato a lavorare, il 16 giugno 2010, avevo paura. L'infarto mi aveva ridotto a pezzi. Tutto ciò che riguardava il mio vecchio lavoro connesso con la politica mi era proibitivo. Quando sul display del telefono compariva il nome del mio cliente sentivo una fitta alla sinistra del petto. Quando facevo un po' più di fatica sentivo la stessa fitta. Ero terrorizzato. Dopo l'elettrocadiogramma sotto sforzo, a due mesi dall'infarto, ho chiesto alla dottoressa a bruciapelo: «Ma io, che aspettativa di vita ho?». Mi ha guardato come se fossi matto. Matto non so, ma stupido sì: il cuore è sotto lo sterno, ben lontano da dove sentivo la fitta. Ma la psiche viaggia per cazzi suoi e finché non la incocci con una buona analisi, governa lei. Pure dopo, ma un po' meno. Anche l'affitto viaggia per cazzi suoi, come il supermercato e il benzinaio. E le uniche parole che stendevo sulla carta che avessero senso erano quelle per l'Unità. Le altre, non le riconoscevo. La gestione dei siti, l'Html, i Css, non esistevano più. Le entrate quindi erano un po' pochine per tutta quella roba che viaggiava. E avevo bisogno di lavorare. Mesi dopo, a un corso di formazione un cooperatore sociale ferrarese raccontava dei loro servizi di orientamento al lavoro per persone in difficoltà. Non roba da Ufficio di collocamento. Roba un po' più pesa. «Da noi vengono persone vinte. Vinte dalla vita». Parlava di me. Ero un vinto. Il mio cuore mi aveva sconfitto. E sapevo che anche lui era stato vinto. Da tutto il resto. Dovevo cambiare.

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