Prologo sorrentino

Statua di pescivendola, Positano

Il "rigato" mi ha portato giù giù fino a Positano, poco oltre la meta prevista, Napoli. Nel mezzo, una gran voglia di fuga, indefinita nei perché e nei per dove, una zingarata verso una decisione che, come al solito, avverrà per caso e per umore, conscio che poi alla fine è l'inconscio a scegliere, prendendosi la ragione. Sono partito col grigio, una mattina riminese grigia fin dentro le notizie, grigie anche le Marche, a chiazze e buchi come l'asfalto. Giusto l'Abruzzo ha cominciato ad esser colorato, di un tardivo autunno. E poi il Lazio, coi colli romani, colorato di pini e ulivi e casoni e agglomerati, mentre il rigato pian piano diventava nero notte, di là tre file di doppie luci bianche, di qua coppie di rosse, a tratti fiammeggianti.

Le tre corsie son diventate due, strette tra le case che si affannano a resistere all'asfalto, un dedalo di fretta, jersey e gallerie e cartelloni, file interminabili da un lato, mentre la mia meta pare si avvicini. Al culmine della statale sorrentinese, si forma la fila che paziente seguo, scendendo verso il mare. Un'ora, forse meno, per una manciata di chilometri, il mare e il cielo un tutt'uno come i caseggiati, nemmeno caratteristici. "Scusi, dove sono?", chiedo all'incolonnato accanto. "A Sorrento", mi dice un po' stranito. Vabbé, ho capito, non ci ritornerò.

L'epicentro della fila è una chiesa, assediata da un nugolo di cappelli a punta, bimbette vocianti e felici di travestirsi fuori stagione, che sgaiattolano inseguite dalle madri da una festa in sagrestia. Mi inerpico seguendo la vocetta digitale su per la costiera, curve, tornanti, parapetti, fino a Positano: una viuzza che scende verso il mare e poi risale, stretta tra il precipizio e alberghi e case affastellati come cozze allo scoglio. Un presepe. Turistico, dalle statuine familiari, commesse graziose sulla porta, camerieri, coppiette mano nella mano e famigliole, ma più piacevole e rarefatto.

Scendo al Pupetto: tra il presepe e il mare 100 metri in verticale, un dedalo di scale e viottoli, 2 ascensori e un poco di fiatone. Me l'ha segnalato mentre pattinavo in autostrada mia madre, habitué da osteoporosi del caldo fuori stagione della costiera. "Una camera, sul mare, grazie", stanza 232, linda e pulita, un po' di marmo, bagno spazioso e una grande vetrata sul buio senza stelle, a parte le boe e le luci in testa d'albero di un paio di scafetti, che danzano leggere. Scaricati i pochi bagagli, mi siedo nella vacanza: menù, "Lezioni americane", vino, cellulare spento, tutto affastellato sul tavolo, consumato con avidità - mi accorgo con fastidio - fino all'ultimo gamberone seguendo ancora i ritmi della città. Il lungo vuoto dell'autostrada non è bastato.

Dal tavolo, imbocco direttamente la via che porta al paese, passa dal fresco ventre della montagna a un viottolo sospeso nel silenzio, scolpito tra pini e piante grasse, compagni odorosi del sipario lavico che scopre il molo, la spiaggia di sassi e sabbia nera, le barchette accovacciate, il ciondolio di code randagie, due amanti abbracciati nella rena. E poi la quinta, un variopinto muro alto fino a toccare il cielo di tetti e di finestre e di terrazzi stellati d'applique. A guardia della spiaggia una pescivendola, un volto di bambina incassato in un corpo deformato, come le enormi mani e piedi, memento d'argilla di ordinarie fatiche disumane, scalfitto dal tempo ormai alle spalle. Più in là, l'ultima bitta, lucida di ormeggi. Al termine del viaggio, segno il Tirreno come un animale e siedo: assorbo il vuoto e la risacca, che in questa quieta notte, dolcemente, mi sta già cullando.

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Commenti

Chicco, non se questo è lo spazio giusto ma....Beh, complimenti per il sito anche se io non amo molto i blog. Mi raccomando fa il bravo Natascia