Il Cuore di Rimini batte ma non ha fiuto per la pecunia calcistica

La capa gira, di Alessandro Piva (1999) con Dino Abbrescia (Minuicchio) e Paolo Sassanelli (Pasquale)

Non mi reputo bacchettone, credo nella legalizzazione delle droghe leggere, non ho figli, ma quando ho letto che uno sponsor della giovanile di calcio di Rimini è il Cocoricò ho storto il naso. Perché credo che il Cocco stia all'educazione calcistica come una dama di carità sta alla solidarietà. E ancora di più l'ho storto leggendo i commenti di chi invece quei soldi “pochi, maledetti e subito” (l'ho messo tra virgolette per ironia, ovvio) li apprezza, li brama e se ne frega da dove vengono.

Non è peregrino il paragone della dama di carità di ottocentesca memoria. Credo infatti che un simile binomio, se anche porta nelle esangui casse del vivaio calcistico un po' di soldi, valga per un locale chiuso per problemi attinenti alla droga come una patacca di buone intenzioni da appuntarsi sul petto. Roba di marketing buona quanto un'operazione di ricostruzione dell'imene alla vigilia del matrimonio. Intendiamoci, non ho elementi per ricondurre direttamente il Cocco ad abusi di stupefacenti. Non mi interessa nemmeno farlo. La decisione è stata presa da organi dello Stato in base a delle leggi e a degli atti che le contravvenivano. E' un fatto, e basta. E in materia di droghe leggere – sottolineo leggere, ovvero i derivati dalla cannabis - sono io il primo a non essere d'accordo con le patrie leggi. Ma questo è un altro discorso.

E' un fatto però che le parole Cocco e abusi formino una rappresentazione scolpita nell'immaginario di generazione e generazioni di frequentatori di discoteche, dai più giovani agli attuali genitori. Chiunque lo percepisce. Sono molti meno quelli che conoscono il Cocco come qualcosa di più, quale è infatti. Il Cocoricò è un fenomeno di costume, è un locale dove le culture giovanili sono cresciute e diventate tendenze, è un luogo di lavoro, un'icona, un brand che attira altri brand. E' speciale, magari bellissimo. Ma non c'entra nulla con i valori dell'educazione sportiva.

Questo brand, oltre ai soldi, non porta un valore aggiunto al vivaio calcistico del Rimini. E' il vivaio calcistico del Rimini che porta qualcosa al locale. Lo aiuta a ricostruire la sua verginità come faro delle giovani generazioni, non solo legato al ballo e ai riti della notte. Una verginità perduta irrimediabilmente nell'immaginario collettivo e, recentemente, nei provvedimenti di pubblica sicurezza.

C'è chi ha ben chiaro che non è, tutto sommato, un affare d'oro il connubio calcistico – educativo con il nome del locale riccionese. E chi invece preferisce seguire l'adagio del “pecunia non olet”. Anzi, visto che uno dei contrari e Stefano Vitali, la nenia principale che viene intonata è “Non ci sono alternative e comunque dove sono le istituzioni, cosa fanno e cosa propongono?” Stefano difende da sé le proprie idee, io posso dire che diversi gli hanno risposto con solenni patacate. Qualcosa di più di una patacata invece è il comunicato di  Cuore di Rimini, la piccola lista civica presentatasi alle scorse elezioni e, da come si dimena, mi sa anche alle prossime. In un lungo comunicato di non facile lettura Emanuale Pironi, - con il quale condivido occasionalmente un calice di vino e quattro chiacchiere, entrambi piacevolmente, all'enoteca del Teatro – traccia al pubblico i perché sì dei civisti. Tralascio gran parte del testo, leggetevelo sul sito di Cuore di Rimini.  Sottolineo solo due passaggi. Il primo : «... se posti di fronte ad uno sponsor eticamente e legalmente impresentabile, allora si che lo stigmatizzare diventa opera non solo accettabile, ma ineludibile e doverosa». E' chiaro che un locale chiuso per problemi connessi allo spaccio, per la lista civica non rientra nella fattispecie.

Vi lascio chiosando dopo con il passaggio seguente: «E bandendo l’ipocrisia, se possibile, quale sarebbe lo sponsor ideale? Quello senza macchia? Quello che non urterebbe nessuna sensibilità? Siamo sicuri che tutto andrebbe bene per tutti, se lo sponsor fosse un ente benefico che gira solo il 17% circa di ciò che incassa per tutelare i soggetti del proprio oggetto sociale? O se fosse una ditta che raffina il petrolio? O che produce il famoso abbigliamento in paesi poveri semmai sfruttando bambini? O se fosse un’industria che sopravvive solo con aiuti di stato ed infischiandosene dei diritti dei lavoratori? O se fosse il magnate straniero, dai dubbi affari in casa propria?» Chiaro il concetto? Le perplessità sulla situazione legale dello sponsor sono solo ipocrisia e, pare di capire leggendo la brillante rassegna delle ipotesi più astratte, con qualunque sponsor ci sarebbero state delle polemiche. Per cui va bene così. E meno male che parliamo di educazione sportiva.

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