Speriamo di non finire “sotto” la Linea d'ombra
C'era la domenica mattina in piazza Cavour prima delle grandi mostre, sonnacchiosa e usuale, e c'era la domenica mattina delle grandi mostre di Goldin, più movimentata e dagli accenti inusuali. Inusuali in città, beninteso, non a marina. E non era spiacevole, anzi. Direi rinfrancante. Anche perché, prendendo il giornale all'edicola o eseguendo il rito cittadino della colazione al caffé Cavour, vedevi Rimini attraversata da persone che della “solita” cartolina riminese per antonomasia – sabbia sole sandali e sudore – non gliene poteva fregare di meno. Anche in giornate uggiose come questa, o brumose di calico autunnale. Niente contro i sandali e il sudore, parecchio del pane riminese viene da lì, eccezion fatta per buona parte di poveri bagnini e di poveri albergatori, che lavorano “a gratis et amore deo”. Per questo mi sono un po' preoccupato quando la Fondazione Cassa di Risparmio ha annunciato il divorzio dall'imprenditore della Linea d'ombra. Ultima conseguenza di un disastro amministrativo sancito dal commissariamento della cassaforte – e vetrina di potere - dei maggiorenti cittadini.
Attenzione, grandi mostre a Castel Sismondo ce ne sono state: il Meeting negli anni non si è risparmiato, così come la Cgil del congresso nazionale, per dirne qualcuna. Non si può dire che prima di Goldin ci fosse il deserto dei barbari, no. Dico che però la presenza di un evento espositivo in città non è mai stata così palpabile e netta come negli ultimi tre anni. Non tiro in ballo le cifre, anche perché stiracchiandole a destra o a sinistra si può provare tutto e il contrario di tutto. E non faccio nemmeno i conti del bottegaio, con esempi di ristoranti e bar del centro prima e dopo la cura espositiva: su questo terreno scivolano già le associazioni di categoria e gli ultimi esempi di dibattito – torno ai bagnini – mi fanno stare alla larga. Mi preoccupa invece la piega dei commenti sul "divorzio".
C'è chi esulta perché Linea d'ombra non sarà più tra noi. La proposta culturale era troppo bassa, secondo molti e ben educati all'arte pensatori, che vedevano nei percorsi espositivi di Castel Sismondo pochi contenuti e grande ricchezza di nomi, specchietti per il facile orecchio delle casalinghe di Voghera piuttosto che per occhi abituati al bello dell'Arte. Insomma, una cultura con la c minuscola, fatta per masse ineducate. Con buona pace di tutti quei lamentii stratificati nei decenni della cultura riminese – lo stesso coro che ha criticato Goldin, beninteso – circa un eccessivo appiattimento sul turismo senza cultura: sabbia sole sandali sudore, appunto. Coro nel quale mi ci metto anche io, sia chiaro. Non so se la pensano così i molti che nelle esposizioni hanno lavorato, sopratutto in questi periodi grami. Un'amica mi ha parlato delle ore trascorse a lustrarsi gli occhi nei colori di Van Gogh. Se le proposte di Goldin sono da massaia o Culturali, non ha fatto parola. E non posso dimenticare il magnetismo di Turner, quando me lo sono trovato davanti. Ma da qualche parte, per invertire con numeri tangibili (non con le dotte dissertazioni, ché qui a Rimini siamo maestri) la deriva turistica da non culturale a culturale, toccava cominciare.
Un amico ben educato (all'arte), dopo aver ricordato la querelle sulla proposta culturale ecc. ecc, che le file all'ingresso erano diminuite, ha liquidato il divorzio come una necessità: “il commissariamento...”. Il resto (visitatori, diverso approccio con la proposta turistica) non conta. Quanto al dover guardare anche con gli occhi dell'Amministratore, oltre che dell'Esteta, l'ha liquidato con un "Noi abbiamo Massimo" (Pulini), sottintendendo che qualcosa si inventerà. Perché, dei due, l'Amministratore è Massimo. E accanto alla mia fiducia in Massimo (Pulini) ci metto pure gli auguri di cuore. E ce ne vogliono di auguri, con le casse pubbliche di 'sti tempi. Auguri che questo filone espositivo non si spezzi, ma che si rafforzi con proposte che incontrano sì la massaia, ma la fanno crescere. Perché di vernissage pieni e sale vuote l'indomani, francamente, ne abbiamo piene le culture. E vuota l'arte.