Segnali

Sta per concludersi un ciclo, iniziato più o meno a Natale del 2000. Ero in ammollo, avevo rifiutato alcuni lavori anche interessanti, se guardati con l'occhio distaccato del professionista, ma proposti da persone con le quali mi riusciva difficile percorrere un pezzo di vita professionale. In fondo, se ti devi calare nei panni di un altro, scrivendogli alla bisogna, un qualcosa che ti spinge, dentro, lo devi avere. Alchimia, direi, lo senti e basta. E ti ci immergi, piano piano, oppure – splash – ti ci tuffi. Io ero in ammollo, e ho cominciato a fare le prime bracciate con un comunicato, dopo una visita istituzionale, prima prova con il mio neo – come lo posso chiamare? - assistito. Avevo sentito giusto, sì, me ne sono reso conto dopo qualche mese, quando le bolle rosse fecero la loro comparsa su tutta la schiena, nel mezzo della campagna elettorale. Ne avevo fatte altre, piccoli approcci da consiglio di Quartiere, i testi per i colleghi raccolti in un pieghevole, che sciorinava un minimo di programma e i volti delle persone, gente semplice che univa al loro vissuto le promesse di un impegno al limite del volontariato. L'istituzione è inutile, si scopre poi, stretta tra i vuoti poteri che il Consiglio Comunale lascia. Ma ci credevano, al punto di mettere sopra al volantino la faccia. Le bolle, invece, erano il segno di un'altra storia, diretta al bersaglio grosso: Roma. Eravamo sotto di 3500 voti, forse qualcosa di più. Che, detta così, sembrano i punti della Coop. E invece sono una folla, scontenta, che non ti riconosce la possibilità di inciderne la vita, tanti insoddisfatti per la buca in strada, perché gli sta sul c....o il sindaco, magari loro vicino, o per il podere da sbloccare, oppure, semplicemente, perché simpatizzano per un partito un po' più a sinistra, o un po' più a destra. Insomma, loro, sul tuo candidato la croce sopra, di partenza, non la mettono. Punto. Il collegio è a rischio, e il tuo candidato parte in salita. E invece, incontro dopo incontro, comunicato dopo comunicato, lettera dopo lettera, quella benedetta croce sopra, alla fine, l'hanno messa. Una vittoria di Pirro, quel collegio strappato alla "concorrenza", ma almeno non era uno dei 50 che ci hanno fatto perdere.
Questi cinque anni sono volati via, vissuti a distanza, seguendo connessioni che hanno anche dell'inconsueto - come quel nodo della cravatta nel campo della telecamera, aggiustato a mo' di saluto mentre dal divano seguo i lavori dell'Aula, dal canale satellitare. Di essi resta un lungo elenco di comunicati, la punta dell'iceberg che, se li vogliamo tradurre in carta, diventano non so quanti giornali, completi di Prima, aperture, box, interviste strilli e brevi - pubblicità compresa - metriquadri di caratteri inchiostrati da polemiche o risultati, narrazioni create “in vitro” diventati segnali, lanciati nel magma dell'informazione, la mia marmellata quotidiana. Guardati con un minimo di distacco, sembrano nemmeno appartenermi, scivolati via come il tempo che hanno scandito. Mentre se ne apre un altro, al ritmo sincopato della campagna elettorale, questa volta di tutt'altra natura. Cambiata la legge elettorale, come l'Italia del resto, ci ritroviamo di nuovo al desk, a strappare una frase – un rigo appena – sui giornali. La guardo, questa campagna elettorale, e questa Emilia – Romagna, con l'occhio distaccato dell'autista, del giornalista, del web designer, dell'attivista, insomma, anch'io ormai una marmellata. Metto il naso fuori dall'ufficio e sono lì – nella placida e ricca e tollerante ed europea Emilia – Romagna – a guardare i segni di questa “battaglia” elettorale, implosa negli occhi e nelle orecchie catodiche o lcd, perciò muta, se non per i sondaggi, o per le poche teste – sempre meno - che si scuotono negli applausi ai comizi. Segni del passaggio di B., rigurgito e apoteosi della prima Repubblica. Guidando nella notte scorro le plance di metallo, colme nemmeno tanto di simboli ormai vuoti, che puoi solo barrare con una croce, segnali anche questi della deriva plebiscitaria di una delega che questa legge ha espropriato - via il maggioritario, via la preferenza - rendendo la politica più distante e impersonale, ad eccezione di chi la incarna. Non c'è più il confronto, il testa a testa che ti costringe a dire, che so, mi sta sul c….o questo, voto l'altro. No, si vota in solido, un simbolo, magari reputato, ma anch'esso trascinato dal tubo catodico. Tutti piegati, chi vuole o chi non vuole, al gioco del Cavaliere, che ha calzato questo stivale, imbrigliandolo in un mendace sogno evanescente, plasmato da parole vuote che rimbombano dal tiggi, ennesimo reality basato sulla realtà. Sono stufo di questo sogno catatonico, esco dal televisore. Domani, dopo l'edicola, il bar e i pasticcini per gli scrutatori, vado al seggio, e con quel che resta del voto sceglierò un nuovo programma. Da bravo coglione.

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Commenti

Anche io ho fatto il c.......e. Con me stesso sono a posto. Ma ora, non posso non chiedermi che cosa succederà?

Complimenti per un bellissimo testo, dove quasi si sente il tonfo di un cuore che cade stanco sulla pagina.. o sulla tastiera. Dispiace non avere più il piacere di scambiare due chiacchiere dal vivo più spesso.