Vicolo Gioia

Sabato, affollato nei primi raggi primaverili. Gambe braccia gonne corte e vociare insistente si fendono al passaggio di un pastrano chiuso intorno al fastidio. Misantropia? Malessere? Oppure semplice differenza di fondo tra la folla indistinguibile di bomber barbour minigonne e tacchi deformi, parto di designer caserecci o negligenti copisti? No, non è nei capi, sta di fatto che il pastrano, strettosi ancora di più nel fastidio, si inclina indietro, per scorgere oltre il muretto vociante una via di fuga. A destra niente, acciottolato e una parete insormontabile di palazzi commerciali ottocenteschi, seriosi e austeri, senza porticato alcuno per fermarsi, magari, a scambiare due chiacchiere. Sinistra? Teste, teste e teste. Colli oblunghi, incorniciati da riccioli arruffati, capelli lisci, biondi, rossi, nuche rasate con codino, chignon attempati, cappelli made in iuesei fatti a Taiwan… Ma no, a trenta quaranta teste di distanza c'è una fuga nel colonnato, una stilettata di sole tradisce un'architettura diversa, marmo meno grigio (lavato da pochi mesi? Più giovane d'età?), un varco nel belare della transumanza. La freccia gialla dal cielo indica un vicolo, luminoso nei pochi passi che i due palazzi commerciali permettono al sole di insinuarsi, rigorosamente dalle tre alle quattro pomeridiane, minuto più minuto meno. Quasi una pausa. Svolta il pastrano, da la precedenza a destra e a sinistra, più per evitare il contatto con la marea che sale e scema impetuosa (misantropia, infine, o un altro capo perso nel grande armadio del Signore?) ed entra nel varco.

Finito il sole, finita la contaminazione del sabato passeggero, finito il marmo lustrato da idrogetti e dallo zampettare infinito, è solo il nero incanutito di bitume mai rinfrescato della stradina che domina. Qua e là chiazze più scure in corrispondenza di ossidati scoli di grondaie, inequivocabili tracce di orina non più odorose. Cassonetti inesplosi traboccano resti mortali e immortali, lasciati alla pietà di tranquilli netturbini meccanizzati in attesa dell'ora che volge alla fine del turno. Tra un muro deturpato dall'intonaco scrostato ed uno colorato di vecchio, il pastrano avanza nella deriva della luce. Un piccolo negozietto, ormai fuori tempo massimo, mette in mostra polverose cianfrusaglie, un piccolo tesoretto della paccottiglia di anni, decenni, magari secoli. Ma come fare a riconoscervi il trascorrere del tempo che valorizza le opere di pregio? Tutto è ammantato di polvere e ragnatele, il legno che sorregge le bottiglie ombrate di ratafià scopre qua e là le schegge, acciacchi, nodi sollevati. Sul piano inferiore, stanca simulazione d'ordine, orologi fermi, acciaio e similoro, ammantati di canizia, ciascuno ad indicare il secondo esatto in cui la loro vita ha cessato di essere, esautorati dalla loro funzione da un a molla difettosa, da una moda che li ha brutalmente estromessi, da un uomo che, portati al polso per anni, alla fine ha incontrato anche lui il suo ultimo secondo. E nessun erede ne ha preso il testimone dl tempo. Eccoli lì, uno accanto all'altro, immobili, non un suono per chi li sta osservando perplesso. Uno solo è diverso, una cipolla con una catenella, troppo lucidi ambedue per essere stati attaccati ad un panciotto prominente. E infatti la lancetta dei secondi si muove a scatti nervosi, da un segno (più o meno in asse con esso) ad un altro, o giù di lì, inequivocabilmente una meccanica elettrica di basso costo con ancora un po' di energia nel cilindretto nascosto. Il pastrano allunga una manica, tanta decadenza in vetrina è irresistibile e la maniglia d'ottone, col suo gioco usurato è troppo vicina per non afferrarla. Il gran ciambellano cardine annuncia al vecchio seduto di fronte alla stufetta elettrica un nuovo visitatore del suo vecchio mondo. Mezzo sorriso è il benvenuto, mezzo movimento di braccio indica il percorso nel dedalo di cassapanche, comò, scaffali. Le gradinante dei fuoriusciti, lo stadio dove un generale senza volontà di potenza ha riunito gli scampati del tempo, nati per rallegrare ordinari mobili di ordinarie famiglia (per carità, dabbene, marito impiegato, moglie casalinga, bambini due in età scolare), finiti invece accanto a telefoni militari tardo '950, elmetti originali Rsi, cartucciere stagne che l'unica guerra vista era di stanchi fantaccini a far pum pum nel tedio della leva.

Bicchieri, bicchierini, collanine ordinarie, portafoto in argento ossidato e, infine, ordinata, la sezione dedicata alla scrittura. Nemmeno su un vecchio scrittoio, su un piano in legno, impiallacciato, tra due comò. Due boccette di inchiostro pelikan, un portapenne con due calamai, uno chiuso da una cupola bucata (dov'è l'aquilotto o la vittoria alata?), l'altro coperto dalla sola cerniera, guardiani in garritta di pennini rugginosi, cannucce mordicchiate, astucci lisi. Nascosto, poco dietro, il caso, l'incontro inaspettato. Se fosse donna sarebbe giunonica, matronale, un po' civettuola con gli spacchi ai lati che mostrano i suoi ingranaggi. Una vecchia signora da osservare, scrutandone i segni della passata bellezza, cercando di immaginare le dita che l'hanno carezzata per strapparle parole, frasi, magari poemi, più probabilmente lettere commerciali, veline, promemoria, rapporti d'archiviare. Squadrata, incanutita, ma dal bel vello nero, senza un fil di ruggine nelle sue giunture, con la scollatura che mette in mostra un bell'emiciclo di caratteri su due file, pronti a scattare morbidamente in sincrono alla carezza. Ma vecchia, irrimediabilmente vecchia per un'avventura, per un rapporto continuativo. Bella da ammirare e da carezzare e da farla parlare ogni tanto. Bella da possedere e da appoggiare nella nicchia, nella libreria, rispettosamente sola, in movimento solo poche volte all'anno.

Il pastrano la indica, volgendosi verso il vecchio nell'angolo. Questi solleva gli occhi, si anima, risveglia il mercante appassito che sonnecchia dietro i suoi occhi e spara il prezzo, né alto, né basso, col tono che non ammette mercanteggiamenti: il tempo è dalla sua parte, il suo archivio di oggetti è raccolto, che si liberi un posto oppure che resti occupato non gli fa differenza, semmai, la Rheinmetal, gli può fare compagnia. Non si preoccupa nemmeno di magnificarla, come potrebbe? In quel contesto polveroso tutto sembra aver perso il fascino, chi trova qualcosa lo prende solo perché ha trovato qualcosa dentro di sé. Il prezzo, quindi, è giusto. E il pastrano, dopo aver contato i soldi, prende la vecchia, abbracciandola la porta a passeggio fuori dal negozio, nel vicolo. Lo percorre frettoloso, entra nel sole e si ferma, per rimettere a posto il carrello che gli è scivolato a fondo corsa nell'inclinazione. Lo rimette a posto, con calma, e alza gli occhi, a guardare la targa di marmo: vicolo Gioia.

Chi sarà questo pastrano che mi sta sollevando? Ormai mi ero abituata alla tranquillità del riposo, alle mie vecchie giunture ferme, alla polvere che mi ricopriva, calma, tranquilla, ad osservare quelle facce curiose che mi guardavano di sfuggita, tutte prese da quelle insulse bottiglie sgraziate… Spero solo che mi metterà in un altro posto tranquillo, dove poter arrugginire in santa pace, non ho più voglia di lavorare… Quelle mani inanellate, che continuavano a battere sui miei tasti, graziose solo a guardarle, pesanti nel scendere sulle lettere, annoiate, che riprendevano la delicatezza solo quando entrava qualcuno dalla voce simpatica. Ma era per poco, si fermavano, cinguettavano un po', lasciandomi inoperosa e dopo poco tempo riprendevano a colpirmi le lettere in maniera nervosa… Una sola, l'ultima se non vado errata, era più delicata. Scriveva poco, con delicatezza, con pause frequenti, come se copiasse, poche righe, a capo spesso. Le sue dita erano leggere leggere, nessun anello, o forse ne aveva uno, non vedevo bene, c'era poca luce, una candela? No, una piccola abat-jour che illuminava di fianco.

Eh ma che luce. Cominciamo bene con il nuovo padrone, nemmeno mi ha provata che già mi mette a disagio. Chissà quante candele avrà questo lampadario. Ma… non è il lampadario: è il sole. Quanto tempo… Ahi, piano, con il carrello, è da un po' che non si muove. Proprio uno sgraziato mi doveva capitare… E adesso cosa fa, guarda la targa della strada? Dai, sbrigati che mi va via tutta la polvere, poi ho freddo. Però il pastrano è caldo, senti come mi tiene stretta, ansima, poverino. Sarò mica ingrassata a stare ferma? Ingrassata, che sciocca, magari mi desse un'ingrassata, da quanto tempo non mi oliano le giunture.

Quanta gente che c'è, e come sono vestiti strani, ma dove sono capitata? Un'altra città, un altro stato? Aspetta, quella piazza la ricordo, la torre, l'orologio… Quanto tempo è passato, anni? Dio come sono invecchiata, queste macchine non le ho mai viste… Quante ce ne sono… E che biciclette strane… Ma si muovono da sole… Oddio, ma sono proprio invecchiata molto, chissà le colleghe che fine avranno fatto… Ogni tanto quella della scrivania di fianco andava via, e quando tornava mi diceva che era stata in clinica, che le avevano cambiato un tasto, il rullo, un ingranaggio del carrello. Una Olivetti un giorno non è più tornata, ma la signorina Remington di fianco alla porta mi diceva che era nell'altra stanza. Però non ho più sentito il ticchettio. Che mentisse? E se questo mi porta in clinica? A cambiare cosa? mi sento tutto a posto. Credo. Non mi porterà mica in clinica, non ce n'è bisogno, sto bene. I miei tasti erano tutti a posto, si muovevano che era un piacere.
La "e" qualche problema ce l'aveva, tutta storta, ma anche la erre se no vado errata non stava proprio in riga con le altre. Ma sono sciocchezzuole, spero, non mi demoliranno mica… No, sto bene, no possono demolirmi, sono ancora in gamba, non ho un filo di ruggine, sotto la polvere sento ancora tutta la mia bella vernice nera, con quelle rifiniture oro che tutte le altre mi invidiavano. Come brillava l'oro, sotto la lampada, in inverno… E ancora di più quando il sole entrava, caldo, estivo, in quell'ufficio scuro, da vecchio avvocato. Chissà questo pastrano dove mi porterà, da come mi stringe non mi sembra uno che mi deve portare a demolire… La Olivetti, le altre, chi le portava via aveva un vestito blu, sbiadito, con grandi tasche, non era come questo, caldo…

Ahia, il carrello, diamine, un po' di grazia, ho i miei anni… Siamo arrivati? Cos'è questo androne? E' questo? E' questo il cimitero delle macchine? Legno marrone scolorito, graniglia per terra, una porta di metallo con un vetro, tasti con i numeri su una parte… Che strana luce… verde… Non sarà mica questa l'entrata del paradiso delle macchine?.. No, non sono pronta, sono ancora giovane, posso scrivere ancora e bene, i miei tasti funzionano, fatemi provare ancora… Non voglio essere distrutta, guardami, guardami sono ancora in gamba, fammi battere una lettera, un promemoria, tutto quello che volete, posso ancora scrivere bene… Lasciatemi scrivere… LASCIATEMI SCRIVERE….

…………….

Posso scrivere ancora. Ti prego.

Ti prego.

Si riaprono le porte, SI RIAPRONO LE PORTE… Grazie, vedrai, come scrivo bene… Magari la "e" non viene bene, nemmeno la erre, a essere sincera, ma scrivo ancora bene, vedrai, un po' d'olio, togli la polvere, il nastro dovrebbe avere ancora l'inchiostro…

E' bello qui, bella scrivania, nera, un po' semplice, non c'è nemmeno troppa confusione… Guarda che mi hai poggiato sopra una penna, traballo, ecco, bravo… Bella lampada, complimenti, libri, non c'è che dire, bella sistemazione… Un po' stretta magari. Quanta polvere… Mi sento quasi a casa… Eh, di già? Fai piano con quel foglio, il rullo è un po' che non lo muovo. Piano con quei tasti, si muovono ancora bene, ecco, bravo… vedrai che andremo d'accordo… Sì ma prova a scrivere qualcosa di decente, non "hsjhygdhusyjdndbn". Vado bene a capo vero?

Ancora "hshusjndfyyidooo"? Prova almeno le maiuscole, il tasto ritorno, la barretta spaziatrice… "Caro Babo Natale"… Mi è capitato un bambino… Babbo con due bi, ignorante… Ah, era un foglio di prova… Un altro bianco… La data, la città, a capo…. Cominciamo bene, una lettera…. No, sistema il rullo al centro del foglio… vediamo:

Vicolo Gioia

Questo racconto è stato scritto per la mostra "Vicolo Gioia", allestita dal gruppo Officina Riminese (Claudio Ballestracci, Stefano Mina, Monica Pratelli, Enrico Rotelli, Valerio Vasi, Angelo Borghese, Alessandro La Motta, Franco Pozzi, Maria Chiara Tonucci) dal 13 aprile al 5 maggio 1996, dove è stato rappresentato da Monica Vandi e Antonio Fabbri, nella galleria della Raffaelli Editore.

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