In morte di Roberto Betti
Il volontariato riminese ha perso un pioniere: Roberto Betti. Quarantaduenne, Roberto ha legato il suo nome all'immigrazione, negli anni in cui il fenomeno si poteva definire così: non c'erano norme certe ma solo tardive sanatorie, non c'erano centri di prima accoglienza né strutture residenziali, la parola extracomunitario diventava comune per i continui allarmi che lanciavano le associazioni di categoria, preoccupate per il commercio abusivo che i senegalesi praticavano. Pochissimi, ma già "pericolosa concorrenza" e valvola di sfogo dei malumori quando le stagioni estive andavano male, come quella delle mucillaggini. Nel ventre operoso della città, i tunisini facevano andare in mare i pescherecci, altrimenti vuoti, ma nessuno lo sapeva, perché facevano notizia come manovalanza nel mondo dell'eroina. Roberto entrò in scena allora, per usare un eufemismo, perché di scena ne ha sempre fatta poca.
Attivista della Gioc, dalle visite che il suo gruppo faceva, insieme a don Luigi Tiberti, a villa Ombrosa, indegna sistemazione viserbese per un nucleo di senegalesi in emergenza abitativa, si trovò a gestire il neonato centro di prima accoglienza, varato pochi mesi prima, il 4 agosto 1988, grazie all'allora assessore Jader Viroli e ai fondi della Regione. Un pioniere senza esperienza, guidato dalla curiosità per quel mondo che non arrivava da noi per fare vacanza, armato di tanta pazienza e di poche, pochissime parole. Estorte con fatica anche quando si trattò di scrivere per lui quel viaggio nella città che cambiava identità, raccolte nel libro "L'immigrato sul pianerottolo" (Rimini 1996, edizioni Solidarietà), la prima testimonianza di un italiano sull'immigrazione.
Roberto raccontò una storia amara. Non la sua, quella di una città che si scopriva improvvisamente diversa, una città "in dialetto", il cui linguaggio non bastava più per comprenderla e per comprendersi. E Roberto, cultura poca e chiacchiera ancor meno, ha provato a cercare un altro linguaggio, insieme a pochi altri, muovendosi in mezzo ad enti, istituzioni, cittadini - vecchi e nuovi, beninteso - che continuavano a pensare, parlare ed agire come se niente fosse cambiato. Le parole di Roberto erano i Leoni di Dakar, la squadra di senegalesi sponsorizzata da Albanesi, i corsi di alfabetizzazione, il lavoro con Abdou Guermah e Valeria Guagneli al centro di prima accoglienza, il tentativo di creare alloggi decorosi mentre in Comune imperava la sordità del pentapartito e sul lungomare i pattuglioni di Barbera, mitigati dagli avvertimenti di Antonio Semprini.
Le parole di Roberto erano la convivenza con altri 11 inquilini di tutte le nazionalità - centri non ce n'erano, bisognava inventarseli - e pazienza se l'inquilino toghese gli costò 2 milioni e mezzo, come garante per un prestito non restituito alla banca. Non era stata la prima fregatura ricevuta, aveva avuto gomme tagliate e minacce con il coltello e non erano queste le cose che lo scoraggiavano: lavorare con e per la gente significava esporsi alle loro debolezze, accoglierle come faceva per il dolore e per le gioie. Non è stato questo a fermarlo, sono state le calunnie e le meschinità a logorarlo. Quelle hanno interrotto un cammino tracciato "dalla mia esperienza nella Gioc, una strada percorsa da una spinta di fede, indicata dalla tensione verso il miglioramento della vita sociale, degli immigrati certo, ma in realtà di tutti noi - mi ha detto tanti anni fa in un bar di San Giuliano - Una strada che dovevo percorrere e che ho percorso con chi me l'indicava e, non me li dimenticherò mai, con altri viaggiatori che ho incontrato, senegalesi, tunisini, marocchini, jugoslavi, albanesi, pakistani. Ai quali forse qualcosa ho dato, ma molto, molto meno di quanto ho ricevuto".