Dopo tante parole ascoltate, esprimerò un monosillabo per il cambiamento: sì.

Palazzo Madama, Roma

Io voterò sì al referendum del 4 dicembre. E non lo farò per sostenere questo o quel governo, questa o quella maggioranza, ma perché questa è, sopratutto, un’ottima occasione per superare un bicameralismo paritario inutile e anacronistico. E francamente sono stanco di vedere tentativi di rinnovare la nostra formula parlamentare naufragare nelle secche della tattica politica e nell’agitazione del consenso. O peggio, nella resilienza di figure politiche ormai ampiamente messe all’angolo dal tempo e da loro stesse. Credo sia questa l’occasione per dire se si vuole fare un passo avanti da un’architettura legislativa ormai datata oppure no. Io dico sì: si può fare ora.

Ci ho messo un po’ a prendere una posizione netta. Anche quando l’orientamento era in qualche modo definito, ho atteso un gesto risolutivo – una revisione della legge elettorale meno “centralista” nella selezione dei capolista – che purtroppo non è arrivato. Una conferma al mio non apprezzare Renzi come segretario di partito. Ma questo lo discuteremo al congresso: sarei insipiente a legare una scelta di revisione costituzionale sulla base della mia affinità con Renzi. La rimodulazione delle funzioni del Senato in chiave più collegata al decentramento è da troppo tempo un dibattito, il “come farlo” ha tenuto in ostaggio il “quando”. E comunque, una riforma del Parlamento travalica l’attuale figura del capo del governo. I presidenti del consiglio passano, la Repubblica resta, sempre e comunque. Ora abbiamo una legge, votata in entrambve le Camere, che cambia il Parlamento, dopo anni di discussione e tentativi abortiti dalla tattica politica. Ora abbiamo una riforma che, seppur perfettibile, è già operativa, non è vuoto cianciare. E’ un cambiamento reale e tangibile. Che sposo convintamente.

Ho passato oltre 12 anni della mia vita a raccontare il lavoro dei parlamentari, di entrambi i rami. Sergio Gambini e Sergio Zavoli in due legislature, in modo limitato Giuseppe Chicchi ed Ermanno Vichi, infine Elisa Marchioni. Ho passato ore ed ore insieme a loro, con associazioni, enti e “semplici cittadini” a ripercorrere l’iter parlamentare di leggi che non avrebbero mai visto la luce nell’assurdo ping pong di discussione tra commissioni e Camere. Ho esultato le rarissime volte che un disegno di legge (ddl) è diventato norma: perché la normalità del lavoro del singolo parlamentare locale è non riuscire a far vedere la luce a un suo ddl, stretto com’è dalle procedure in doppia copia, insieme alla complessità della legislazione e dei rapporti politici (si, ci sono anche questi). Ho scritto di emendamenti che, in righe illeggibili nel linguaggio “parlato”, in commissione o in Aula diventavano occasioni o tranciavano speranze. Sempre in doppia copia. Gli emendamenti diventava notizia troppo spesso ben più di quattro volte nel corso di una Finanziaria: quando si presentavano alla commissione alla Camera, quando erano bocciati (o passavano) in commissione alla Camera, quando si ripresentavano in Aula, quando venivano bocciati in Aula, e poi di nuovo tutto l’iter al Senato. Una serie inesauribile. Provate a pensare quanto lavoro c’è dietro a ogni singola mozione – il parlamentare che la formula, il tecnico legislativo che la scrive, il tecnico che trova la copertura finanziaria, i parlamentari che la devono discutere - e quadruplicatelo, e avrete una pallida idea del perché considero l’abolizione del Senato come duplicato di una camera legislativa già operante un sano taglio alle normali procedure parlamentari. Non è un taglio alla democrazia, è un taglio a procedure che, al di fuori dei percorsi protetti che avvolgono le norme fondamentali per la nostra Repubblica, sono ridondanti e pleonastiche.

Ho letto molte cose che considero assurdità in queste settimane di discussione. La più grande è che la Costituzione è intoccabile, pena il viatico per una nuova dittatura. Lo Statuto Albertino ci accompagnò dagli arbori dell’Italia risorgimentale – una Italia cetuale dove gli ultimi non avevano diritto di voto - alla dittatura fascista senza bisogno di essere modificato. Per questo nacque la nostra Carta, sulle macerie della nazione e sul sangue dei Partigiani e di chi la liberò. In quei sacrifici c’era la volontà di un rinnovamento dell’Italia così come era stata costruita e poi distrutta, sbarrando la strada al ritorno di una dittatura. Una Italia che ora chiede di cambiare ancora, non mettendo da parte il profondo senso di quei sacrifici, che sono e resteranno la base del vivere comune, ma nell’organizzazione dello Stato e delle sue rappresentanze del corpo elettorale, dei cittadini. Ancora, cito le modifiche della Riforma, “Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione (art. 55). Ed ancora “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67). Solo, le due Aule avranno funzioni diverse: “Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica” (art. 57). Tutti i parlamentari hanno quindi una legittimazione popolare, ma un percorso elettivo e un compito diverso: dov’è quindi il pericolo per la nostra democrazia? La discussione in realtà è un’altra. E’ scegliere se davvero si vuole modificare qualcosa nella nostra politica, se si vuole uscire dalle secche della contrapposizione senza costrutto o dalla tattica del consenso, oppure se si vuole cominciare – cominciare – a cambiare. Io sono per cominciare a cambiare e lo dico con un Sì. Renzi o non Renzi.

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