Chicago, di Ala Al-Aswani: dall'Egitto all'America, sogni infranti di futuro e democrazia.
Ho finito da poche ore Chicago, di Ala Al-Aswani (Feltrinelli, Milano 2008, ISBN 9788807017537), scritto nel 2006 ma pubblicato in Italia solo nel maggio scorso. Sono un po' disorientato. Anzi, il disorientamento mi ha seguito lungo tutta la lettura. Scorrevole, niente da dire, a tratti crudo, a tratti coraggioso ma, a tratti, anche deludente. Ed ora, dopo qualche giorno di decantazione, provo a tirare le somme di questa immersione in una "soap" impegnata, forte e decadente, che dopo aver messo sotto una feroce accusa il proprio Paese e chi sostiene il suo abbruttimento democratico, l'accomuna all'America - e agli americani - del prima e del dopo 11/9, in modo ugualmente radicale.
Se il primo romanzo del dentista - scrittore egiziano, «Palazzo Yacoubian», l'ho salutato con sorpresa, piacere - uno sguardo acuto e interessante su una realtà che così poco viene conosciuta in Occidente - la seconda prova contiene molte conferme, ma un appeal letterario decisamente inferiore. Stesso linguaggio crudo, stessa coralità, stessa violenza nello svelare i personaggi e le società - americana ed egiziana - che si dipanano nella vicenda di Chicago. Ma molto meno gusto nella lettura.
Ala Al-Aswani alza il tiro, è innegabile. Porta la sua critica ad un livello sociale e internazionale più alto. L'affresco narrativo gravita intorno ai giovani medici egiziani, impegnati in una specializzazione a Chicago, e ai loro docenti da anni emigrati e ormai naturalizzati e "occidentalizzati", elevando lo sguardo ad uno strato sociale superiore rispetto a palazzo Yacubian, dove raccontava la piccola e media borghesia, raccolta tra le mura del vecchio edificio de Il Cairo. E in questa diversa ambientazione, racconta la società americana, venata dai profondi e non colmati solchi del razzismo contro gli afroamericani ed ora verso gli arabi del dopo Twin towers, altra volto della terra democratica che può dare quelle occasioni precluse che a un giovane studente di medicina in patria.
Come innegabile è il suo coraggio, sopratutto ascoltando quanto raccontano i personaggi egiziani, al punto che talvolta si è costretti ad alzare gli occhi dalle pagine e chiedersi come è possibile che in un tale regime egli possa continuare a vivere e a scrivere. Ma se nella prima opera si leggeva un pretesto strutturale - il palazzo "fatto a fette", che strizzava l'occhio a «La vita istruzioni per l'uso» di Georges Perec - questa seconda prova ne è monca. Diventa poco più di una "soap opera" impegnata, il cui linguaggio semplice, spesso ne aumenta l'impatto ma, talvolta, lo svilisce.
E alla fine il dubbio. Ma davvero solo l'amore, quello puro, senza tentennamenti, senza scorciatoie, senza cedimenti, può vincere nelle società di Al-Aswani? Si può essere sovraumanamente retti per sopravvivere alla propria perdizione? Nessuna sbavatura, o umana debolezza è ammessa, in questa rappresentazione dolorosa? Non è la religione a salvarci - e in Chicago i punti di vista si ampliano alle altre confessioni - non è nemmeno la democrazia, assente in Egitto, malata di paura e incompiuta in quella che dovrebbe esserne la culla. Non è nemmeno il lavoro né la famiglia. Ma allora, cosa mi lasci, caro scrittore, quando ho raggiunto la parola fine?