Solenne ottavario dei morti

James Joyce

Mi piaceva di più andare al cimitero a trovare mio fratello quando fumavo. Spostavo un ciaffo a forma di paperella che qualcuno – non so chi e non so perché – gli aveva lasciato di fianco all'immagine, mi sedevo al suo posto, rollavo la mia paglia e mi ritagliavo quelle poche boccate con lui. Qualche volta parlavo del più e del meno – sto imparando a gestire mamma, Viola mi sembra un po' smarrita, non riesco a darmi una radanata... - ma poi ho smesso: se c'è un aldilà, è probabile che sappia già tutto, se non c'è un aldilà, sono solo un altro matto che parla da solo. E così spipacchiando il mio tabacco passavo con lui una decina di minuti.

Ora che ho perso il vizio delle sigarette, il giro da Robi ha molto meno senso. La sua assenza è una presenza conclamata nei gesti quotidiani. I fiori non si possono portare perché non c'è modo, tra l'ulivo nano e i fiori nella terra e la composizione stagionale a centro tomba. E poi la cura delle spoglie è il consolatorio monopolio delegato alle sue due donne. C'è il piacevole del posto, calmo, tranquillo, con quell'affrettarsi di congiunti intenti alla cura dei marmi, delle foto, delle piante, il cui andirivieni ricorda il bottinare delle api, instancabile e immutabile liturgia del ricordo. Anzi, della pulizia del ricordo.

Oggi poi ha avuto ancora meno senso. O pregnanza, o interesse, o gusto? Il cimitero invaso dalle torme di congiunti agghindati nella festa, il baracchino dello Ior che ha preso il posto del rom che chiede l'elemosina (stesso rito, ma molta più professionalità, non trovate?), i vigili alla porta in alta uniforme, le anziane con il capello scolpito da grande occasione, con quel grigio che del tempo non ha nulla, anzi riluce di riflessante... Ecco, tutto quel che negli altri 364 giorni manca, rendendo il cimitero un luogo piacevole da percorrere.

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