L’improbabile cancellino digitale di Fb sul nome di villa Mussolini

Foto d'epoca della casa natale di Mussolini con persone in gita per visitarla

La mia cara collega Vera Bessone – god bless you, darling - mi ha invitato ad aderire al gruppo “Per cambiare il nome a villa Mussolini a Riccione”. Apprezzo il gesto, ma non aderirò. Non vorrei scomodare l’immagine di Winston Smith, il cui ruolo nella fantastica e visionaria mente di George Orwell riscriveva la storia cancellando i nomi dei personaggi invisi al Potere del momento. Ma sono costretto a farlo. Solo che il ruolo del Potere di turno viene in questi tempi di social network preso dal coro isterico che serpeggia da una posizione revisionista all’altra, a destra come a sinistra. Con lo sterile tentativo di modificare il presente o il futuro semplicemente con un colpo di spugna reale o digitale: un trattino sul nome, un libro da togliere a scuola, una statua divelta o imbrattata, una gogna mediatica che dura lo spazio di un giorno, se va bene un po’ di più.

Di volta in volta ho partecipato anche io al coro mediatico – sì, anche io nel mio piccolo appartengo alle pecore belanti di Animal farm, così anche io nel mio piccolo rientro nelle legioni di imbecilli battezzate magistralmente da Eco – ma per la miseria, sento il bisogno di disintossicarmi dalla furia iconoclasta di questi mesi, anzi anni. E di discernere un pochettino dalle lotte che vale la pena fare, quelle che mi paiono sbagliate e quelle che mi paiono catalizzatrici di imbecilli. Quest’ultima categoria l’ho inserita in onore di Eco, NON perché l’accomuno al cambio di nome a Villa Mussolini.

Riccione non ha poi tante vestigia e personaggi storici da vantare: un passato di borgo di pescatori, qualche focolare e un ponte romano lungo la Flaminia, delle sorgenti in riva al mare a sud – le Fontanelle - una benefattrice americana con il vezzo anglosassone di prendersi cura del popolino che la circondava, costruendo gli omonimi ospedale e scuola e finanziando il porto. E’ con Benito Mussolini che Riccione diventa qualcosa di più di un anonimo borgo di pescatori dove passare le vacanze nel villino di famiglia al mare. Non ricordo se firmò lui l’elevamento al rango di Comune nel 1922 – maledetta memoria - ma il Mascellone sicuramente le fece fare temporaneamente il salto di qualità da paesotto da vacanza a centro cultural-mondano-politico estivo, installandoci la famiglia e facendo ogni tanto la sua comparsata, ovviamente funzionale alla mitizzazione del suo Potere.

Io ricordo un po’ Villa Mussolini nelle sue versioni. Se non ricordo male era un ristorante di massa, mi pare si chiamasse Merendero ma forse mi sbaglio, poi chiuso presumo per la senescenza dell’edificio. Il comune lo restaurò sotto la giunta Imola, per farne un luogo di cultura sicuramente adatto ai vacanzieri vista la posizione. Ma anche restaurato resta un pallido edificio se lo compariamo alla bellezza liberty di Villa Lodi Fe o dei tanti villini dell’epoca che si estendono prima o soprattutto a sud di viale Ceccarini. Ma è uno spazio pubblico che rappresenta comunque qualcosa per la città. Innanzitutto una stagione che ha avuto una grossa importanza, a cominciare dal traino per il suo sviluppo turistico nella seconda parte del Novecento. Sarebbe stata cantata Riccione da Dino Sarti, avrebbe attirato i capitali di Aquafan negli anni ‘80 e di tutto ciò che è seguito sulla collina, ci sarebbero state le discoteche e i treni speciali del Cocco, sarebbe stata il set per anni delle tv private per le loro trasmissioni dedicate alle fasce giovanili?

Intendiamoci: non ascrivo questo ragionamento alla litania del “Mussolini ha fatto anche cose buone”. Un cazzo. Mussolini plasmava alcune città funzionalmente alle sue esigenze di propaganda e quindi di potere: Predappio la città dell’Uomo Nuovo, Riccione la città della vacanza della famiglia italiana, Littoria, Sabaudia le città delle bonifiche, e via e via. Però i discendenti dei pescatori, i commercianti dell’ombra e della camera e del tavolo apparecchiato e i musichieri e intrattenitori vari hanno saputo approfittare della rendita di posizione che il Mascellone ha lasciato in eredità una volta passata la ben più pesante eredità della carneficina mondiale.

E’ comunque un’eredità ingombrante, certo. Qualcuno la utilizza per perpetuare il ricordo del Bombetta, è vero, pateticamente a ricordare tempi passati che non torneranno più, e rigorosamente sempre dimentichi che i primi a far fuori il Mascellone furono i suoi stessi seguaci il 25 luglio del 1943. Ma se li guardiamo bene, sono buoni solo per comprare il tanga alla moglie con su scritto “Boia chi molla”. I fascismi del nuovo millennio hanno trovato nuove forme di espressione, eludendo le categorie novecentesche e facendo – guardiamo negli Stati Uniti o in Brasile oggi, e prima del Covid – 19 nelle Filippine, giusto per fare qualche esempio – nuove stragi con nuove parole d’ordine. E davvero noi crediamo che aderendo a un gruppo Facebook possiamo cambiare queste cose? A suon di post tireremmo una riga su un quarto di Novecento riccionese, cancellandolo come faceva Winston Smith? Spegneremmo d’un botto il silenzioso grido dei morti della campagna d’Africa, di Spagna, dell’Armir, dei fuochi delle incursioni notturne, di Fragheto e Marzabotto? Crediamo davvero che la nostra esistenza digitale sia così reale da farci dimenticare che la vita è fatta di corpi, e che il destino dei corpi è dettato dalla mente oltre che dal fato?

No, come Winston Smith non credo alla menzogna o all’ignoranza. Non credo alla furia iconoclasta del momento e alla rimozione. Un ricordo rimosso non è una vittoria, è una lezione perduta. Credo più nella lezione di Giorgio Frassineti, ex sindaco di Predappio, che alle orde di nostalgici che affollano la sua città, da amministratore tentò di schiuderla alle folle molto più grandi dei curiosi di tutto il Novecento. Trasformando la casa natia del Mascellone a Dovia, la frazione poi inglobata nella nuova Predappio mussoliniana, in un museo del Novecento, di prima durante e dopo il Ventennio. «Siamo legati indissolubilmente al nome di Mussolini, negarlo non si può», mi disse mentre spiegava come stava tentando di superare lo stallo culturale delle invasioni nostalgiche che tre volte all’anno colorano di nero Predappio. Lo fece apparentemente con poco: a chi entrava in quella casa dai natali funesti, Frassineti faceva balenare la bandiera rossa e nera del fabbro socialista internazionalista, papà Alessandro Mussolini.

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